DIARIO – 2018.04.12
Stanotte è piovuto, con delicatezza. Il tetto non si è esibito nell’abituale fracasso che tanto ama fare. Il tetto dell’hotel assolve a due funzioni diverse: una ovvia, una insospettabile. Quella ovvia non c’è bisogno di dirla. Quella meno ovvia è acustica: adagio sinfonico nelle ore calde, riverbero di cicaleccio la sera, allegro alla carica (dei nostri amici ratti) la notte, assoli di galli a tutte le ore, tempesta tambureggiante quando il cielo scarica: mancano solo, alla gloria di questo bel tetto, l’amplificazione dei quartetti di cagnara, che qui, fra i cani, unico posto al mondo, non usano. Per non vedere il tetto, potevo scegliere una stanza con il controsoffitto. Ho fatto bene a tenermelo a vista: ho una stanza dove chiunque può entrare, dall’alto, ma almeno non mi sono perso l’intrattenimento.
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Stamattina alle sei è arrivata Andrena. Ha trovato fuori dalla dispensa gli ingredienti per preparare il pasto di mezzogiorno. Come tutte le mattine, l’ho sentita bussare alla porta di mme Evena, chissà per chiedere che, raccogliere i piatti della sera, spazzare il corridoio.
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Babi ha avuto la sua ridimensionata dieci giorni fa, quando gli ho chiesto di riportare il pick-up all’hotel tutte le sere. Il pick-up è il suo pezzetto di potere: lo porta dove vuole, fa trasporti per chi vuole. Una registrata ci voleva. Ora la sera posteggia qui, consegna le chiavi a mme Evena. Gli ha fatto bene: l’autorità è ristabilita. Adesso, se parlo, ascolta. Infatti stamattina alle otto meno dieci era qua. Ha iniziato a manovrare il pick-up, per portare attrezzi e squadra oltre la Plaine.
Perché ieri finalmente io e Luc, il proprietario dell’unico pozzo di acqua dolce, pozzo da molti anni abbandonato, abbiamo raggiunto un accordo per il suo sfruttamento. A Luc vanno cento dollari americani al mese, in rate uniche da pagare ogni due anni, anticipate. A noi di GasMuHa e alla comunità va finalmente il controllo del pozzo.
L’idea, più volte raccontata, è di portare alle campagne sottostanti, al villaggio, l’acqua dolce. Il compito della squadra, in questi giorni, è di migliorare i due chilometri di pista in salita di quel tanto da poter andare e venire con una moto e con il pick-up.
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La squadra è cresciuta. Ormai include anche le due donne: Marlene e Clemene, le quali, da molti giorni, senza chiedere nulla, in ringraziamento degli aiuti ricevuti, si sono messe a lavorare con noi, spostando pietre, rifinendo dopo il passaggio degli uomini. Che sono: Keystone, Dariville, Johnny, Babi, più Herby in funzione di tecnico del martello cinese, e controllore.
Il pick-up svolgerà il compito, importantissimo, di trasportare il generatore, la sabbia, il cemento, i blocchi, gli attrezzi. Perché lo sfruttamento del pozzo inizierà portando su il nostro generatore diesel da 5 kW, che pesa cento chili, più il pieno, intrasportabile sugli asini, ma solo eventualmente a mano, con due squadre di quattro uomini, per provare la vecchia pompa, estrarre almeno l’acqua per impastare il cemento. Sorgerà una tettoia da 100 metri quadrati, in pietra e cemento. Porterà la batteria di pannelli, proteggerà le capre della zona, l’inverter della nuova pompa. La quale arriverà in ultimo, ad acquedotto finito.
L’acquedotto sarà di quattro chilometri. Un ramo di 2,4 chilometri scenderà al villaggio. Un ramo di 1,6 chilometri salirà fino al plateau, per realizzare un piccolo punto di distribuzione di acqua in prossimità e a servizio delle fattorie interne, le più in miseria.
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Stamattina è stata partenza lenta, come si conviene quando ci si accinge a un’opera impegnativa. Il pick-up mi ha atteso qualche minuto, il tempo di scaricarmi addosso un secchio d’acqua fredda, insaponarmi, scaricarmene un secondo, lavare i denti.
La prima fermata, dopo sessanta metri, per fare alla mamma di Dariville un servizio: caricare, trasportare, lasciare al wharf cinque enormi sacchi, da cinquanta chili l’uno, di arachidi sgusciate, secche: il risultato di una lunga filiera produttiva, iniziata con la semina, proseguita con la speranza di un po’ di pioggia, il raccolto, il trasporto a casa, l’esposizione al sole, il ritiro in casa in caso di pioggia, il paziente lavoro delle donne di sgusciare i semi, uno per uno. Dariville si è fatto caricare i sacchi in spalla. Senza la struttura di Keystone, Dariville riesce a spostare qualunque cosa. Non ho voluto domandare perché non si è iniziato questo lavoro durante la mia toilette.
Attraversiamo il villaggio. Sale Keystone, canticchiando. Fermata al carrefour del molo. Dariville scarica le arachidi.
La terza fermata avviene cinquanta metri dopo la seconda: Johnny va da mr. Roger ad acquistare la miscela per il martello: uno solo, mentre il secondo attende pezzi di ricambio. Anche qui, non chiedo perché si sia dovuto attendere l’orario di partenza.
Verso le 8.30 siamo sulla pista, là dove ogni veicolo è costretto a tornare indietro.
– Ragazzi, tutti qua per favore.
– …
– Clemene! Marlene! Anche voi per cortesia.
– …
È il mio primo brief da capo cantiere. La vita è una sorpresa continua.
– Herby
– Mr. Anouch.
– Herby, traduci, parola per parola.
– Non serve, – fa Dariville – ti capiamo.
– Non tutti. Le donne ad esempio no.
Già, le donne. Raramente i maschi haitiani le tengono in conto.
– Ascoltate bene. Da oggi attacchiamo la vecchia pista di Dent Grient. Fino al pozzo accanto a Basile. Perché? Per l’acqua del pozzo.
– …
– Dobbiamo far passare il pick-up, le moto.
– …
– Non serve un lavoro di fino. Il pick-up deve poter andare su e giù, in tutto una trentina di volte. Per portare cemento, sabbia, altro.
– …
– Dobbiamo avanzare veloci. Gli uomini spostano i massi. Le donne spostano le pietre, e sistemano.
– …
– È tutto chiaro?
– Iniziamo?
– Prima andiamo in ricognizione.
Mi complimento per l’idea di portarli in ricognizione. Vuoi vedere che si dimostrano capaci di ragionare.
Ci spostiamo verso l’alto. Camminiamo su un letto di pietre.
– Immaginate il pick-up. Qui passa?
– Sì. Se togliamo le pietre passa.
– Bene. Avanti.
– …
– Qui passa?
– Qui no, Anouch.
– Bene. Allora, dove lo facciamo passare?
È un gradone di roccia alto circa ottanta centimetri. Le bestie lo aggirano. I veicoli non passano.
La squadra discute. Apriamo un varco a sinistra. No, meglio a destra: guardate, dopo è facile. Intorno passano asini scarichi, diretti da bambini, verso l’abbeveratoio, dove riempiranno le taniche gialle. Le carovane lanciano apprezzamenti. Dariville preferisce non aggirarlo, ma sgretolare il gradone. Li lascio fare. Ci metteranno ore, è giusto che si gestiscano in autonomia un lavoro del genere.
– Tutto chiaro? Ora possiamo tornare giù, prendere gli attrezzi e iniziare.
La squadra inizia. La mia presenza li stimola. Uno lavora di machete. Tre di piccone. Uno usa il martello pneumatico. Io sposto pietre. Piccole e grandi. Vado avanti e indietro per seguire tutti. Le donne coi rastrelli.
Il sole non è forte. È filtrato dalla foschia. Alcune rocce, da quintali, le rotoliamo in due. La pista cambia aspetto. Ogni tanto Babi avanza un po’ con pick-up, per accertarsi che passi.
A un bel momento, trovo tutti al lavoro tranne Kuku, che sta al cellulare, all’ombra.
– Kuku
– Dammi quel cellulare.
– Oui mon père.
– È come in champions. Cartellino rosso. Lo rivedi fra tre giorni, il cellulare.
– …
– Kuku, quest’albero. Tutto tuo.
– I rami?
– No, devi proprio sradicarlo.
Babi ci sente. Arriva col piccone. Inizia a scavare la pianta, che deve avere almeno trent’anni.
– Babi. Dai il piccone a Kuku.
– A Kuku?
– Sì. È la sua pianta. Deve sradicarla lui.
Kuku è fatto per sfide dirette. Fa mulinare il piccone.
Alle undici siamo al gradone. Il quale, come aveva previsto Dariville, non resiste a lungo. Roccia tenera. Il martello ci entra bene. Grosse scaglie si affastellano ai suoi piedi, creando uno scivolo per le grandi ruote del pick-up. Lavorandoci in sei, a mezzogiorno siamo già oltre.
– Herby.
– Mr. Anouch.
– Giornate come questa danno la certezza. I tubi, i pannelli. Fra un paio di mesi il progetto sarà terminato. Adesso che abbiamo iniziato, che vedo il lavoro procedere, lo posso dire con certezza.
Non si tratta di pietre da spostare, di alberi da rimuovere. Si tratta di persone che, con qualche stimolo, iniziano a uscire da una cultura centenaria di pessimistica attesa: di un cambiamento etero-indotto. Lo sviluppo, insegna Barbara Drosten, è un processo di apprendimento.
Materialmente, fra due mesi qui accanto passeranno le condotte. Dimenticheremo la fatica, le mani escoriate, il lavoro senza guanti. Magari, pure, abitando in Italia, le mani torneranno morbide, delicate. Intanto qui sulle colline qualche migliaio di persone farà per sempre meno fatica, per l’acqua: quell’acqua che da noi pretendiamo ogni volta che apriamo un rubinetto, mentre qui, semplicemente per abbeverare una capra, lavarti la faccia, devi farti sedici chilometri, andartela a prendere, a piedi. (Non mi interessa che mi facciano un monumento. Mi interessa che scoprano il gusto di unirsi per un obiettivo. Mi interessa che facciano esperienza che possono fare, tutto; che, nel tentare, non sono soli).
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Il Diario di ieri, lo ammetto, era un po’ strano. È stato il frutto della notte precedente, durante la quale ho “visto” la situazione, raccontata dai tre evangelisti sinottici, della guarigione in due tempi del paralizzato di Cafarnao.
È uno dei grandi segni attribuiti a Gesù. A me sconvolge ogni volta, come la storia di Lazzaro. L’altra notte credo di essere stato lì.
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Janusz Gawronski, dall’isola della Gonave, Haiti